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Alessandro Turoni

L’ESTINZIONE DEI GIGANTI

a cura di Giovanni Gardini

MAF - Museo Archeologico di Forlimpopoli

21.12.’24 - 19.01.’25

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Alessandro Turoni stupisce sempre. Le sue “archeologie del futuro” - solo apparentemente ingenue, dissacranti o giocose - custodiscono un messaggio profondo che pungola l’osservatore costringendolo a interrogarsi su alcune delle grandi questioni della vita: il destino dell’umanità, il suo rapporto con l’ambiente, la possibilità di una convivenza pacifica.

Con L’estinzione dei giganti, un progetto allestito all’interno dell’affascinante cornice del Museo Archeologico di Forlimpopoli, Turoni porta in scena un immaginario sconcertante e originalissimo, a tratti post apocalittico, che vede nei «giganti» ormai estinti il simbolo di un’umanità arrogante e prevaricatrice. Attraverso le sue opere Turoni offre sguardi immaginifici su un futuro lontano in cui gli uomini e le donne di oggi - i «giganti», appunto - sono confinati in un passato remotissimo in cui la loro tracotanza si è finalmente esaurita. Tante sono le situazioni proposte - ogni scultura pare una scenografia teatrale, dove gli attori sono già pronti a recitare la propria parte -, tante le narrazioni possibili dalle quali emerge con forza, tra i vari temi, anche quello del fallimento dell’umanità. Di questa nostra epoca frammentaria e incerta restano esclusivamente delle tracce: una macchina fotografica, un chip, una carta di credito, un iPhone, un auricolare, un piercing, dei soldatini, dei rifiuti gettati in un lago sul cui fondo giace una macchina - che ironicamente l’artista ha chiamato Il lago dei ricordi -, un accendino o una radio, tutti oggetti incomprensibili, se non addirittura bizzarri, allo sguardo degli uomini del futuro. Oltre a questi residui di un mondo consumistico e violento dominato dalla plastica, affiorano dalla terra delle ossa umane, come ad esempio un teschio, una mandibola o delle dita scheletriche che imperterrite continuano a stringere, nonostante tutto, un cellulare. Nell’opera più grande, intitolata Il Titano, emerge dal suolo anche un intero scheletro che brandisce nella mano una pistola, segno di un’umanità brutale la cui repentina scomparsa ha fatto calare il silenzio su tutta la terra.

In questo mondo del futuro che si potrebbe lecitamente immaginare ormai disabitato emergono alcune minuscole figure perlopiù solitarie e smarrite che si differenziano, se non altro per le dimensioni, da coloro che ne erano stati i dominatori. A questi lillipuziani, così piccoli da cavalcare uno scarabeo come in Cavalcature del futuro, pare sia lasciato il compito, quasi fossero degli archeologi, di scoprire la presenza dei «giganti», di interrogarsi sulla loro vicenda e sul perché della loro definitiva e drammatica estinzione. Ed è quanto mai significativo che siano proprio queste presenze così piccole a dover rileggere la storia dei «giganti»! Queste microscopiche comparse, uomini e donne spesso isolati, vanno lette in netta contrapposizione con chi aveva spadroneggiato con protervia sulla terra e, al tempo stesso, rappresentano la speranza di un mondo migliore. In La civiltà guerriera, infatti, un teschio di bambino, cuore di tutta la composizione, diventa l’ambientazione di una serrata battaglia in cui dei soldatini di plastica sono messi a combattere. Una donna incinta osserva sconsolata questo scavo archeologico in cui affiora questo “giocare alla guerra”, un’immagine dalla quale si evince come alla ferocia si venga tragicamente educati sin da bambini, a partire da quella fondamentale esperienza che è il gioco.  

L’oracolo presenta un cranio dal quale fuoriesce un chip, un elemento che, nella visione dell’artista, vuole indicare la dipendenza dalla tecnologia e il desiderio di essere costantemente connessi. Anche Silenzio radio può alludere a questa situazione. In quest’opera il legame con lo spazio espositivo emerge in modo quando mai significativo perché Turoni immagina un lontano futuro in cui viene scoperto il Museo archeologico stesso: dal terreno affiorano le sue possenti murature e nello spazio in cui una volta era la ghiacciaia spunta l’antenna di quella radiolina che i secoli hanno confinato sottoterra. Qui l’artista, intrecciando passato, presente e futuro, crea un contesto ambiguo e straniante, gioca con lo spazio e con gli spettatori che guardando alla grande antenna in scala reale posta nella ghiacciaia sono invitati a chiedersi a quale epoca desiderano appartenere, se a quella dei «giganti» oppure a quella di una nuova umanità che ci si auspica possa essere più fraterna.

Sulle rovine di questo passato, che siano i resti ossei od oggetti quotidiani del tempo che fu, si innestano dei veri e propri cantieri di scavo; eppure attorno ad essi non si respira quell’aria di sana e vivace frenesia che normalmente si percepisce in contesti di questo genere, ma permane un aspetto di smarrimento, se non addirittura di abbandono, come ad esempio in Cranio di gigante o nelle due opere intitolate Il megalite dove impalcature dall’aria tanto fragile quanto instabile si appoggiano ai resti di un iPhone. Questa nuova umanità che ha preso il posto di quella precedente pare, infatti, non avere la forza necessaria per ulteriori indagini e quello che si percepisce è una dimensione di sconfortata desolazione.

Il mercato coperto, un lavoro incentrato sul tema del denaro e del commercio, presenta una vecchia carta di credito furbescamente reimpiegata come tettoia per ripararsi dall’immenso e assolato deserto circostante mentre ne L’estrazione dell’avorio, una scultura che rimanda anch’essa al mondo degli affari, tanti piccoli uomini, quasi fossero brulicanti formiche, si affannano attorno a un dente - un molare - da loro ritenuto preziosissimo. La riscoperta del fuoco gioca sul ritrovamento di un accendino conficcato nelle profondità della roccia; Fotografia di paesaggio, un’opera composta su differenti livelli, presenta in superficie un uomo solitario mentre in una sorta di ampia caverna fa bella mostra di sé una vecchia macchina fotografica. In Il santuario un semplice piercing per la lingua - non a caso il “tempio” è compreso nello spazio della mandibola! - appare agli occhi degli uomini del futuro come qualcosa di seducente, tanto da renderlo immediatamente un oggetto di culto.

A completare la mostra, quasi a corredo delle opere esposte, una colonia di topi beffardi dall’aspetto a tratti spettrale invade furtivamente lo spazio del Museo.  Anche loro, al pari degli archeologi del futuro, guardano ai resti dei «giganti» con curiosità appropriandosi con smodata avidità di quanto era loro appartenuto.

 

Giovanni Gardini

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